Franco Ruinetti ci regala il melanconico e dolce ricordo di Rusein, il pittore riccionese (compirebbe cento anni) fu mandato in guerra, ma non sparò un colpo di fucile e, non avendo le tele, dipinse Cristo sulle pezze da piedi.
Tutto tramonta in fretta. Sono ormai passati diversi anni. L’unica cosa che resiste
più a lungo è lo specchio della memoria. Così ripenso e rivivo con piacere qualche serata estiva alla fabbrica di Bruno Polverelli, in arte e per tutti Rusein, a metà strada tra Riccione e Morciano. Telefonava agli amici: “Se non vieni non ti parlo più”. Bruno aveva piacere che io arrivassi prima degli altri a mezzo pomeriggio, per parlare dei suoi quadri che aveva disposto a vista sulle sedie, sui mobili, sul cavalletto nel suo studio in mezzo alla solitudine della campagna. I colori erano mattutini, del pennello intinto nella tavolozza dell’arcobaleno.
Ricordo le composizioni floreali, non rose e tulipani grassi comprati
nelle botteghe, bensì piccole candide margherite, viole timide di fosso, il biancospino armato. E poi bambolotti, una festa di pupazzi. Ma che dici!? Non sono dei fantocci, sono i miei amici, che non diventano adulti e io sono come loro, non quello che tu vedi, sono ancora un fanciullo e lo rimarrò fino alla fine.”
Mi veniva in mente la poetica di Giovanni Pascoli. Ciascun invitato portava il suo contributo. Io mi presentavo con la caciotta. Così c’era abbondanza di prosciutto, piada, ciambella, frutta, formaggio, salame. Nel mezzo della tavola, sotto il grande noce, troneggiava un pagliaio verde di fave. Panciuti e sull’attenti erano schierati due o tre fiaschi di sangiovese della sua cantina.
Quel vino aveva un retrogusto salino sfuggente e dovevi bere ancora per cercare di raggiungerlo. Ricordo che ogni tanto uno strano verso sgraziato lacerava la sonnolenza meridiana. Era il canto o il pianto dei cigni di un casolare vicino. Poi venivano gli invitati, da quindici a venti. Bombardi, pittore veronese, magro come un chiodo, iniziava a mangiare per primo e finiva per ultimo.
Anche sua moglie, poetessa, piena di acciacchi, aveva un appetito da lupi.
Poi c’era Gusella, grande invalido, pittore senza le mani. Si avvaleva di semplici, ma funzionali protesi. Ricordo un tenore che si alzava in piedi e sparava acuti. Non mi entusiasmava. Invece mi piaceva la Silvana dalla voce lieve come una farfalla. Il dottor Pari parlava poco ed era misurato anche nel mangiare e nel bere. Era e tuttavia è un pittore bravo quanto riservato.
Non poteva mancare la Gina, moglie di Rusein. Mite, ma pronta ad ogni evenienza. Vestiva di scuro e con quei gran baveri bianchi della camicia mi pareva una scolaretta composta e attenta. I più di quella festosa compagnia sono passati a miglior vita. E ora che siamo nella triste epoca del corona virus mi viene incontro Dante: “Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria.”
Gli ultimi tempi per Bruno furono dolorosi. Prima il diabete gli prese una gamba.
Quando dovette andare era un ragazzo di 88 anni.
Franco Ruinetti