L’Abissinia non è solo un quartiere di Riccione: è un luogo dell’anima, prima ancora che un luogo fisico. Te la porti dentro da quando sei nato e non te la togli più, ti entra dentro e si fissa nelle cellule del tuo corpo segnandoti la vita per sempre.
Come diceva il Buddha: puoi togliere un ragazzo dall’Abissinia, ma non potrai mai togliere l’Abissinia da un ragazzo. L’Abissinia degli anni sessanta-settanta è il meridione della Perla Verde, dimenticato da Dio e dai mezzi di trasporto e lontano anni luce dallo splendore luminoso del centro.
“Cristo si è fermato in Viale Cesare Battisti”, diceva una scritta spennellata sul muro di una casa. Terra di frontiera, ultimo confine della cosiddetta civiltà prima del profondo sud riccionese, pericolosamente vicino a Misano e alle Marche, fatto di campi incolti e case popolari abitate da famiglie di comunisti mangiatori di bambini.
Anche il prete aveva paura quando andava laggiù a benedire le case per Pasqua, e noi bambinetti ne stavamo giudiziosamente alla larga. Girava voce, fra gli anziani del posto, che in tempo di guerra i tedeschi avessero usato l’Abissinia per sperimentare un marchingegno nucleare segreto per il controllo delle menti, e che il marchingegno sia ancora lì, abbandonato dai tedeschi in fuga in un bunker sotterraneo in fondo a viale Enrico Toti, magari ancora acceso e in funzione. Leggenda? Chissà… io credo ci sia un fondo di verità. Non esiste altra spiegazione per giustificare l’alta concentrazione di personaggi dai comportamenti a dir poco particolari che dal dopoguerra in avanti hanno popolato il quartiere.
Sono nato lì nel 1960 e lì sono cresciuto, passando le giornate correndo con i miei coetanei per i viali alberati del quartiere, giocando a pallone, cacciando lucertole sulle dune di sabbia con la fionda, scavalcando i cancelli delle ville dei bolognesi per mangiare le prime susine di stagione, e ascoltando dai più grandi storie inverosimili di personaggi che si faceva fatica a credere fossero esistiti veramente. Non rendendoci conto però che anche noi, giovani figli del boom economico nati da genitori Abissini con i geni modificati dalla macchina nazista, stavamo a nostra volta diventando i protagonisti di storie incredibili che sarebbero state raccontate nel futuro. Il futuro adesso è qui.
CONOSCIAMO L’AUTORE
Luca Villa nasce a Rimini nel 1960, unica macchia sul suo perfetto curriculum di riccionese verace, ma dopo pochi giorni fa subito rientro all’Abissinia,
il quartiere di Riccione che sarà la sua casa per gli anni futuri. Frequenta prima l’asilo e poi la Scuola Elementare dalle Maestre Pie, per poi passare alle medie Camillo Manfroni. Nel 1974 con il grande salto fuori dai confini verso il Liceo Scientifico Alessandro Volta, viene a contatto con un mondo nuovo e scopre con meraviglia che c’è vita oltre Viale Ceccarini. Dopo una prima infanzia passata a giocare a palline in spiaggia e a cacciare lucertole con la fionda, inizia a tirare calci ad un pallone nel campetto di cemento della parrocchia Mater Admirabilis. A 11 anni si iscrive alla Robur, locale squadra di calcio che l’anno successivo diventerà Asar, permettendogli così di calcare il prato di un vero campo da calcio: ginocchia e gomiti ringrazieranno. Sviluppa fin da giovane la passione per la lettura, legge di tutto e molto velocemente. Fino al punto che, non trovando più nessun libro interessante, decide da buon romagnolo di farseli da solo e inizia a scrivere pubblicando in proprio per una ristretta cerchia di amici. Dal 2012 vive all’estero, ma ha sempre mantenuto un forte legame affettivo con la natìa Riccione e durante il recente lockdown, preso da una botta di nostalgia, ha iniziato a scrivere la serie di ricordi che ora, ringraziando FA, sono diventati un libro vero.
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