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Bruno Ricci “Bichina” salvato dal suo cane

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Bruno Ricci «Bichina», la famiglia numerosa e la passione per la pesca e la caccia. Un vero e proprio personaggio riccionese che deve la vita al suo cane che lo salvò durante una battuta di caccia.

Nina Parma ad “Rusul”

Bruno Ricci, detto «Bichina», aveva due passioni che si possono considerare congenite: la caccia e la pesca. Sua moglie, la Nina ad Rusul, ebbe in 13 parti ben undici figli.

La miseria, garantita a 24 karati, mai gli impedì di cantare sereno le arie dei più aggiornati successi musicali. Sereno come sotto le scintille ardenti della benedizione di Dio, Bichina, proprietario di un fucile, di un moscone fatto da Angiòl, di qualche nassa, di un cogollo e di una tratta, non ebbe preoccupazioni.

Il mare, sempre generoso, gli rendeva l’indispensabile per nutrire i figli. Il fucile era l’hobby che riempiva i vuoti della sua esistenza, anche se la casa era piena zeppa di figli. Un meriggio di primavera, sul finire degli anni venti, fucile in spalla, si portò ai «cucci», postazioni in doppi capanni seminterrati ai margini di acquitrini, creatisi a sud di Riccione con le grandi piogge del 1924, che la gente chiamò «i guaz», punto di approdo della selvaggina proveniente dal cuore dell’Europa centro-orientale.

Naturalmente la Torbide, la cagna di “Faitoun” pazza di gioia, lo accompagnò fino alla postazione per raggiungere la quale il nostro Bichina, che si faceva le cartucce da solo, con carica maggiorata, deve aver impazzato entrambe le canne, come si dice in gergo venatorio, perchè al primo colpo il fucile gli si disintegrò nelle mani, provocando la fuoruscita dell’occhio sinistro e la sua caduta, privo di sensi, con abbondante fuoruscita di sangue.

La quasi umana intuizione, la prontezza di spirito della Torbide la indussero a una precipitosa ricerca di aiuto, a casa sua dove addentando i pantaloni del giovane Cicca, il figlio del padrone, non tardò a fargli capire che doveva seguirla con tutta urgenza. Tra un guaito e l’altro diceva parole, raccontava l’incidente, e fu così esplicita che lungo la via i soccorritori crebbero da uno a tre.

Il pronto intervento scongiurò l’emorragia, il ricovero ospedaliero salvò il giovane Bichina, il quale, nonostante tutto, non cambiò mai carattere. Figlio di carbonaio, rinunciò per amore della caccia e della pesca, ai promettenti aggi di un avviato fiorente commercio. Con uno degli eterni mosconi di Angiol, andò a calare reti d’imbrocco, e a salpare le sue nasse.

Però se il passaggio della selvaggina rendeva «l’aria strèta» non disdegnava di remare con il fucile a tracolla e sparare qualche colpo anche dal mare!

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